Funiculì funiculà

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Funiculì funiculà

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musica e canzoni

Sebbene la prima moderna canzone napoletana sia considerata Te voglio bene assaje (1839), la composizione che innovò davvero il passaggio dal vecchio al nuovo fu senz’altro Funiculì funiculà, scritta nel 1880 da Giuseppe Turco e Luigi Denza. Fu Funiculì Funiculà, infatti, che segnò il passaggio di consegne, presentando sia elementi di continuità che di novità rispetto alla precedente produzione: i repertori che vennero prima di quel genere che si sarebbe poi chiamato ‘canzone napoletana’ erano composti da artigiani, da studenti o da aristocratici con velleità letterarie e musicali. La canzone napoletana fu, invece, il prodotto di quella piccola borghesia che si affermò in città dopo l’unità d’Italia e che diede vita ad un’autentica e moderna industria culturale comprendente musica, teatro, arti figurative, letteratura e giornalismo (e non a caso Giuseppe Turco, autore del testo della canzone, era un giornalista così come Giovanni Capurro, autore del testo di ‘O sole mio).

In un momento di grande trasformazione urbanistica, le vecchie canzoni, pubblicate per lo più su fogli volanti, utilizzavano spesso fatti di cronaca come pretesto dei loro versi, per esempio l’adozione del gas per la lanterna del molo di Napoli (molto più efficace, naturalmente, per l’illuminazione pubblica). Anche Funiculì funiculà prende spunto da un fatto di cronaca, ma lo fa su un piano completamente diverso: l’occasione è l’inaugurazione della funicolare per il Vesuvio; e se il titolo sembra già uno slogan pubblicitario, le parole esaltano le capacità liberatorie ed emancipatrici della tecnologia, perché la funicolare liberava dalla lentezza delle salite a dorso d’asino e permetteva di guardare il mondo dall’alto collegando il brivido dell’altezza alla passione amorosa (“se vede Francia, Pròceta, la Spagna/e io veco a te! Io veco a te…”).

Funiculì funiculà è, insomma, una felice combinazione di passato e futuro, un ponte tra due mondi, dei quali uno veniva consegnato alla storia e l’altro apriva al futuro. E di apertura davvero si trattava, perché non fu questa canzone a diventare modello formale per la canzone del periodo: la funzione di Funiculì Funiculà fu dunque quella di rompere con un immaginario ormai vetusto. Ma a definire il canone di quella che oggi reputiamo canzone ‘classica’ furono senz’altro le liriche di Salvatore Di Giacomo. Funiculì funiculà, in ogni caso, ebbe un successo travolgente e, soprattutto, duraturo, con sorprendenti adozioni da parte di musicisti come Richard Strauss, Nicolai Rimsky Korsakov e perfino Arnold Schoenberg. Fu soprattutto nella popular music che il brano ha dimostrato un’impressionante vitalità, e qui per ‘popular music’ intendiamo anche quelle esecuzioni da parte di artisti come Mario Lanza o Luciano Pavarotti quando prestano le loro voci per prodotti esplicitamente pensati per il grande pubblico e tarati su di esso: nelle loro versioni, gli archi, il crescendo del ritornello, gli acuti delle voci vengono esaltati, a riassumere una resa ‘operistica’ del brano. Più tradizionale la versione di Connie Francis, all’anagrafe Concetta Rosa Maria Franconero, cantante americana di origine italiana, che la propose negli anni ’60 in uno stile più vicino allo spirito della canzone. Funiculì funiculà ha avuto un enorme successo anche oltreoceano perché la sua musica evoca il ritmo di quella tarantella che è considerata la danza per eccellenza di Napoli e del Mezzogiorno d’Italia: una tarantella stilizzata, beninteso, deprivata di tutte le sue caratteristiche etnomusicali sia urbane che rurali, ridotta a ‘formula’ cittadina e, tuttavia, non esente da quell’afflato ritmico che caratterizza i modelli popolari e tradizionali.

La più geniale reinterpretazione di questo classico napoletano, allora, va senz’altro attribuita ai Mills Brothers, un gruppo vocale afroamericano attivo già a partire dagli anni Trenta, che si portava dietro tutta l’eredità del jazz, dei suoi cori metodisti e delle sue ‘barbershop harmonies’. Le botteghe da barbiere, infatti, fino ai primi decenni del ‘900 erano per lo più gestite da afroamericani e, scrive Stefano Zenni, «gli uomini, in genere quattro, cantavano melodie popolari armonizzandole lì per lì. L’assetto corale delle armonie si assestava attraverso un processo di prova e di errore: cantando accidentalmente certe note d’armonia si creavano combinazioni molto espressive. Questi accordi, spesso in contrasto con le norme dell’armonia accademica, contenevano dissonanze di vario genere o seguivano una peculiare condotta delle parti». Ed è esattamente quello che fanno i quattro fratelli: accompagnati solo da una chitarra, i Mills Brothers si dividono la melodia e l’accompagnamento della celebre canzone tra le loro quattro voci imitando i suoni del contrabbasso e degli strumenti a fiato tipici del jazz, dissolvendo l’atmosfera di tarantella ‘normalizzata’ della canzone, intensificando e valorizzando le cadenze ritmiche del brano che, nella loro performance, appaiono davvero solo come pure potenzialità da sviluppare.

Vettori collegati

Canzone Napoletana

Genere musicale

Fonti

Paliotti, Vittorio. Storia della canzone napoletana. Roma: Newton Compton, 1992.

Vacca, Giovanni. Gli spazi della canzone. Luoghi e forme della canzone napoletana. Lucca: LIM, 2013.

Zenni, Stefano. Storia del Jazz. Una prospettiva globale. Roma-Viterbo: Stampa Alternativa, 2012

Scheda redatta da: Giovanni Vacca