Saul Steinberg

disegnatore e illustratore
Saul Steinberg

Graffito di Steinberg nell'atrio di Villa Mayer (BBPR). Foto Paolo Monti  Biblioteca digitale BEIC e caricato in collaborazione con Fondazione BEIC;immagine proviene dal Fondo Paolo Monti, di proprietà BEIC e collocato presso il Civico Archivio Fotografico di Milano, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=48054831

1914 / 1999

Râmnicu Sărat, Romania / New York, NY, Usa

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“E’ un europeo o un americano?” si è domandato Hilton Kramer. “Avanguardia o il suo opposto? La verità, come spesso avviene, è che non è né uno né l'altro, e nello stesso tempo è tutt’e due: un ibrido fiorito nello spazio che divide queste due cose”.
La prima vita di Steinberg in Romania scorre veloce e breve, tra infanzia e adolescenza, in un periodo amaro di cui non avrà mai un bel ricordo se non quelli legati alla propria famiglia.
Dopo il diploma superiore, nel 1932 si iscrive all’Università di Bucarest alla Facoltà di Filosofia e Lettere, ma il suo essere ebreo gli crea numerosi problemi e ostacoli nella frequenza delle lezioni, e gi impedisce il passaggio alla Facoltà di Architettura. Così, anche su consiglio ed esempio di altri amici, Steinberg decide di andare a Milano, città vivace nell’architettura e nel design, e nella quale “si respirava un'aria di modernità, per quanto irregimentata nei ferrei dettami stilistici e culturali del primo regime fascista”.
Nel dicembre 1933 si iscrive al Regio Politecnico di Milano come studente della neonata Facoltà di Architettura, inaugurata poche settimane prima. 
I primi anni non sono facili, tra solitudine, povertà e infelicità: viveva vicino al Politecnico, in quella Città degli Studi conclusa 5 anni prima, costruita secondo il linguaggio tra tardo déco e neo-modernismo. Steinberg, riconoscendo in quei suoi anni milanesi di mezzo quelli della sua trasformazione e della prima maturità, anni dopo farà dei disegni “a memoria” in un portfolio dal titolo Italy - 1938 pubblicato sul New Yorker nel 1974, con tavole di strade ed edifici tra via Pascoli e via Ampère. 
Tra il 1936 e il 1940 lavora come vignettista per le riviste umoristiche Bertoldo, fondata da Cesare Zavattini, e Settebello, diretta dallo stesso Zavattini con Achille Campanile, e inizia così a stabilizzare la sua creatività e strutturare la sua vita. Grazie ai proventi dei primi lavori si trasferisce in una stanza sopra il Bar del Grillo, uno dei primissimi progetti di Rogers e Peressutti, ritrovo degli studenti del vicino Politecnico.
Con l’introduzione delle leggi razziali nel 1938 la sua situazione si complica: solo con l’aiuto di amici (era compagno di corsi oltre che di Aldo Buzzi, anche di Marco Zanuso, Alberto Lattuada e Luigi Comencini) e la probabile complicità dei professori, riesce a recuperare tutti gli esami e a laurearsi nel marzo 1940, facendo anche qualche lavoro di architettura, design e decorazione d’interni. 
Collabora con Erberto Carboni e lo studio Boggeri in campo pubblicitario e con Pietro Chiesa e Fontana Arte, disegnando arredi, paraventi e paralumi con le sue illustrazioni decorative.
Dalla laurea, scaduto il permesso di restare in Italia, inizia un lungo percorso burocratico per potersi trasferire negli Stati Uniti, aiutato da Cesare Civita, ebreo italo-americano fuggito nel 1938 a New York (e poi stabilito in Argentina) dove aveva aperto un'agenzia, grazie a quale i suoi lavori cominciarono ad apparire sulle riviste americane nel 1940 (Harper’s Bazaar, Life, Town and Country).
Dopo mesi di tentativi, Steinberg viene arrestato nell’aprile del 1941, portato nel carcere di San Vittore e poi trasferito in un campo di concentramento a Tortoreto negli Abruzzi, da dove riesce fortunosamente a trovare i documenti necessari all’espatrio e finalmente a partire per Lisbona e da qui per l’America. Pur di allontanarsi dall’Europa in guerra, resta a Santo Domingo più di un anno, lavorando e disegnando, mandando disegni a Civita che li fa pubblicare sulle riviste americane, in attesa di un visto americano, che arriva nell’estate del 1942, quando vola a Miami e da lì arriva a New York.
L’America per Steinberg è soprattutto New York: arrivato in città, sente subito l’energia della “grande attività, una riconversione e un ritorno al normale e in grande stile”, e per affacciarsi a questo mondo decide che la sua arte è un ottimo lasciapassare: “senza pregiudizi, l’unica cosa che penso vada bene qui, onesta e genuina, è il cartoon, il disegno umoristico”.
A New York incontra un vecchio amico sardo-milanese, Costantino Nivola che, emigrato qualche anno prima, era Art Director di Interiors and Industrial Design, “un uomo piccolo di statura ma di proporzioni eroiche” con cui inaugura nel 1943 una mostra di disegni alla Wakefield Gallery di New York. Nivola lo mette in contatto con altri importanti autori che frequentavano la città e che ne diventano amici, come Bernard Rudofsky e Alexander Calder, Josep Lluis Sert e Le Corbusier.
Steinberg comincia a frequentare nuove amicizie, tra artisti, musicisti e galleristi, mantenendo però ben saldi e continuativi i rapporti con i vecchi amici, soprattutto italiani. Avendo una grande passione per l’illustrazione degli interni abitati e vissuti, in alcuni memorabili disegni rappresenta delle architetture senza facciate per mostrarne il contenuto o per evidenziare le varie personalità che incontrava, come in uno spaccato della società newyorkese.
New York per Steinberg è soprattutto il lavoro al New Yorker, con cui ha collaborato per quasi 60 anni, realizzando più di 1200 disegni e 85 copertine. Lavorare per il New Yorker è stato l’altro passo verso la sua maturità: “ho fatto dei disegni con piacere - cosa commovente - è chiaro che il N. Yorker è il mio rifugio, patria e rete di sicurezza”.
Nel 1943, per ottenere la cittadinanza americana, viene arruolato come ufficiale nella marina americana e assegnato agli uffici dell’OSS (Office Strategic Service oggi CIA) nell’unità Morale Operations. Viene inviato in Cina, India, Algeria e nel 1944 in Italia, con l’incarico di realizzare opuscoli per l'esercito con vignette di propaganda antinazista, con falsi messaggi e “propaganda nera” per minare il morale del nemico. Tra gennaio 1944 e aprile 1945 pubblica sul New Yorker i suoi reportages dal fronte e anche grazie a questo lavoro acquisisce una posizione unica fra i collaboratori della rivista. 
Tornato in America da cittadino americano, si concentra sul suo paese d'adozione, viaggiando alla scoperta del continente, tra strade, motel e diner, e “iniziando a sbeffeggiare con la stessa ironia, cowboy e vedove dell'alta società, magnati e star del cinema, gente di città e gente dei sobborghi, la cultura delle highways e il kitsch del Golden West”.
All’inizio cerca di “assorbire” più America possibile fino ad assimilare quella cultura che fin da ragazzo aveva sognato, a seguito di una visita alle bellissime cugine americane di cui rimase ricordava perfettamente l’odore di America, chewing gum e shampoo.
Inizia allora il suo lungo racconto visivo dell’architettura vernacolare americana, spesso trascurata o non compresa. “È l’America delle cittadine qualsiasi, impostate su una griglia estesa a perdita d'occhio, l’America delle periferie invase da motel, abitazioni sparse, l’America delle insegne pubblicitarie e della strada come paradossale “luogo””.
Niente è più americano che essere on the road. Mentre in Europa era la piazza il luogo modello di aggregazione sociale, in America, soprattutto all’Ovest, la società si sviluppava lungo le arterie di connessione, intorno all’uomo come automobilista.
Si ferma sulla costa West, per lavorare a Los Angeles a una produzione cinematografica poi non conclusa. Qui, stringe l’amicizia con Charles e Ray Eames, con i quali collabora ai disegni delle Plastic Chair, realizzate per una mostra al MoMA nel 1948.
Una vita sempre in movimento, errante, in perenne Grand Tour, in un ininterrotto viaggio fisico, psicologico e culturale: torna spesso in Europa e in Italia, visitando città e coste, per piacere e per professione. La sua prima mostra nel vecchio continente sarà a Roma presso la Galleria L’Obelisco nel 1951.
In alcuni momenti fu molto critico con il nostro paese, come quando ricordava “la cara Italia, che diventò Rumania, patria infernale”. Oppure, quando dopo l’esperienza per il Labirinto dei ragazzi in Triennale e il graffito alla Palazzina di via Bigli, a Buzzi scriveva che “non andrò presto in Italia - anzi ho paura di rifare l’esperienza del ritorno del Prodigo che è un errore”. O addirittura, schietto e “politicamente scorretto”, quando nel 1968 disse che “in Italia sono tutti dei morti di fame. Non c’è senso del rischio, non c’è niente. Paura di crepare di fame, gran voglia di trovarsi l’impiego, la pensione come meta… tutte queste cose… Non è il mondo ideale, per uno che ha vissuto in America”.
Steinberg ha continuato per tutta la vita a disegnare le sue dolci e ironiche memorie italiane: nel 1951 parlando di suoi viaggi racconta che “più sono stato in giro più ho voluto bene all’Italia”.
Nei non rari disegni di viaggio, spesso fatti anche postumi, usando la fantasia della memoria, si nota il grande uso di una tecnica con i timbri, veri e stampigliati o disegnati e inventati. Steinberg, che fu prima emigrante forzato e poi grandissimo viaggiatore, vede nel timbro, oltre a un mezzo espressivo, un tipico segno del controllo sociale, necessario ai documenti per essere validi, indispensabili per procedere nei viaggi. 
Oltre ai primi due libri, All in Line (1945) e The Art Of Living (1949), frutto soprattutto dell’esperienza pre e proto-americana, gli altri titoli emblematici che indicano sempre la sua visione di scoperta transatlantica sono: The Passport (1954), The Labyrinth (1960), The New World (1965), The Inspector (1973), The Discovery of America (1992).
Se il viaggio è l’attività motore di tutta l’arte di Steinberg, non poteva esserci altro strumento che le mappe, per leggere ancora meglio tutto il suo pensiero disegnato: non si tratta di strumenti scientifici ma di strumenti artistici che vogliono narrare le possibili posizioni della società nel mondo; immaginarie, descrivono, talvolta con incredibile e fantasiosa dovizia di particolari, le terre dell'interiorità, del sogno e del mito. Nella geografia immaginaria di Steinberg, la distanza cartesiana è subordinata alla dimensione soggettiva, emotiva e sociale.
Spesso sono “mappe di luoghi reali rifratti attraverso i suoi costrutti mentali” come quella speciale dal titolo Autogeography, che riassume splendidamente tutto il suo universo logico e personale. 
La sua vita e il lavoro ci parlano continuamente di scambi tra culture in un transatlantic transfer tra Italia e USA.

Vettori collegati

Costantino Nivola

scultore

X Triennale di Milano

mostra

Bernard Rudofsky

architetto

BBPR

New York

The Museum of Modern Art

museo

Triennale di Milano

Ten Italian Architects

mostra

Fonti

Steinberg, Saul. 1945. All In Line. New York: Sloan & Pearce.
Steinberg, Saul. 1949. The Art of Living. New York: Harper & Brothers.
Steinberg, Saul. 1954. The Passport. New York: Harper & Brothers.
Steinberg, Saul. 1960. The Labyrinth. New York: Harper & Brothers.
Steinberg, Saul. 1965. The New World. New York: Harper & Row.
Steinberg, Saul. 1973. The Inspector. New York: The Viking Press.
Harold Rosenberg. 1978. Saul Steinberg. New York: The Whitney Museum of American Art.
Steinberg, Saul. 1992. The Discovery of America. New York: Alfred A. Knopf.
Steinberg, Saul. 2002. Lettere a Aldo Buzzi 1945 - 1999. Milano: Adelphi Edizioni.
Joel Smith. 2005. Steinberg at The New Yorker. New York: Harry N. Abrams.
 

Scheda redatta da: Matteo Pirola