Eugenio Battisti

storico dell'arte
Eugenio Battisti

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1924 / 1989

Torino, Roma, Italia

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Gli anni del soggiorno americano di Eugenio Battisti, storico dell’arte moderna attivo anche nel campo del contemporaneo, si estesero dal 1965 al 1970 e furono alternati da frequenti rientri in Italia, costituendo un punto di svolta nella sua carriera sostanziale quanto l’unicità dell’esperienza che ne derivò. Tale trascorso ricadde inevitabilmente, e con una prevedibile consistenza, anche all’interno di Marcatrè, notiziario di cultura contemporanea dall’approccio multidisciplinare da lui fondato a Genova nel 1963, determinandone con tutta probabilità un certo stampo, così come l’andamento delle sue sorti. 
L’attività americana e l’ottimismo operativo dello studioso si concentrarono in diverse direzioni: non solo sull’insegnamento universitario, ma sull’organizzazione di mostre, principalmente concepite con lo scopo di far conoscere l’arte italiana negli Stati Uniti, così come su una solida strategia promozionale di artisti e studiosi prevalentemente italiani, ma occasionalmente americani, coinvolti in iniziative di sponsorizzazione e collaborazione o, riguardo gli italiani, incitati a un più radicale trasferimento. Un ampio spazio fu poi rappresentato dall’organizzazione di conferenze e congressi e dalla stesura di progetti di ricerca e editoriali, in cui fu incluso ovviamente Marcatrè. 
Per mappare cronologicamente l’attività americana dello studioso è stata essenziale la consultazione del suo epistolario. Esso aiuta a ricostruire una rete di rapporti istituzionali e non, in aggiunta a questioni di natura strategica, progettuale, ma perfino opinioni a riguardo del sistema artistico, sociale, politico ed educativo degli Stati Uniti, in un periodo cruciale come quello della seconda metà degli anni Sessanta, segnato da profondi mutamenti storico-sociali quali l’emergere dei movimenti studenteschi e di piazza per i diritti civili interraziali, l’affermazione del femminismo e delle sottoculture, ma anche da tragici episodi politici quali la guerra del Vietnam o l’assassinio di Martin Luther King. 
Nella Penn State University, grande centro universitario nel cuore della Pennsylvania, il chairman Wilson Weisman aveva avviato un programma di sviluppo del Dipartimento di Storia dell’Arte. Uno tra i professori che lì esercitava, Robert Engass, dopo esser venuto a conoscenza degli studi di Battisti, aveva pensato di introdurlo direttamente al chairman, invitandolo a prender parte del comitato di insegnamento, inizialmente come visiting professor. Lo speciale contratto part-time, di cui Battisti avrebbe goduto, gli avrebbe tra l’altro permesso di poter mantenere agevolmente i contatti con l’Italia e recarsi ogni anno per un lungo periodo di tempo nella sua patria. Robert J. Clements, studioso statunitense di letteratura rinascimentale, ebbe in questo processo un ruolo di prim’ordine: oltre a essere stato per Battisti amico, confidente e attento dispensatore di consigli, in quegli anni condusse da New York una consistente sponsorizzazione di Marcatrè, cui seguirono numerose richieste di abbonamento. Dobbiamo perciò supporre che la rivista avesse, già prima dell’arrivo di Battisti, una discreta diffusione negli Stati Uniti. 
In prossimità della partenza, lo storico dell’arte mirò a cogliere le attenzioni degli artisti americani, che dopo la Biennale del 1964 e la vittoria del Leone d’Oro da parte di Robert Rauschenberg, avevano risvegliato l’interesse della critica e del collezionismo mondiale, al fine di assicurarsi che quanti più di loro potessero contribuire ad arricchire e internazionalizzare la collezione del Museo Sperimentale di Arte Contemporanea di Genova, da lui fondato nel 1963. Rispetto a ciò, egli chiese ad esempio a Gasparo Del Corso, gallerista de L’Obelisco, che insieme alla moglie Irene Brin ricoprì una funzione essenziale nell’interscambio con gli Stati Uniti, di intermediare con Alexander Calder per ottenere in dono una sua opera, o a Germano Celant, all’epoca suo assistente, di riservare un trattamento di estrema cordialità al pittore Bruce Tippett, di origini britanniche ma newyorkese d’adozione, che aveva donato un suo quadro. Proprio dagli inizi 1965 s’infittì inoltre la corrispondenza con numerose figure gravitanti nel mondo accademico e artistico americano, poiché Battisti fu da subito consapevole dell’importanza che rivestiva la creazione di un intreccio di contatti nel continente americano. Da ciò ne derivò la volontà di conoscere approfonditamente il sistema delle gallerie newyorkesi, per cui Magdalo Mussio, grafico della rivista, propose a Battisti di farlo guidare al suo arrivo da una sua esperta amica che da anni viveva nella città. 
Nel mese di agosto dello stesso anno la famiglia Battisti partì alla volta degli Stati Uniti. Dopo un soggiorno di circa un mese a New York, il 13 settembre si spostarono in Pennsylvania, dove ebbe inizio l’attività didattica di Battisti. Quando arrivò a insegnare portò con sé il concetto, insito ugualmente tra le pagine della sua rivista, che: “non è possibile separare gli artisti, l’intellighenzia, dal mondo politico, sociale, economico e morale”. Già dalle prime lettere che comparvero a proposito, egli manifestò una profonda ammirazione rispetto all’organizzazione e al sistema d’istruzione americano e, più in generale, all’impostazione sociale e istituzionale. Contemporaneamente, la sua posizione all’interno dell’Università si faceva ogni giorno più consolidata e non tardò ad arrivare una promozione come full professor. Battisti era estremamente interessato a un interscambio tra la sua nuova università e l’Italia e a fissare una continua cooperazione culturale tra gli Stati Uniti e il suo paese di origine. Mentre maturava un metodo per ricevere il più velocemente possibile materiale d’informazione dall’Italia, sviluppo ben presto anche l’idea di redigere un’edizione americana di Marcatrè. Ciò sarebbe stato utile a inserirsi ancor più radicalmente nel dibattito artistico contemporaneo, analizzando i fenomeni culturali appartenenti agli Stati Uniti ed estendendo l’autorevolezza che in territorio italiano si stava ritagliando una rivista come la sua. Per realizzare questo progetto iniziò perciò un’intensa attività di ricerca sulla cultura contemporanea statunitense, rinsaldando la sua rete di contatti e conoscenze. Già nei primi mesi universitari, alternati da soggiorni tra il campus universitario e la ben più fervente New York, si adoperò in un’intensa attività di promozione del notiziario in più centri. Nonostante la sua instancabile operosità, il tentativo di redazione in inglese si dimostrò però difficoltoso e irrealizzabile, sia per la grande mole di lavoro che già di per sé richiedeva la rivista, definita in quel periodo da Celant come il “rinoceronte della cultura”, sia per le difficoltà di reperire fondi e il problema della traduzione dei testi.
Parallelamente a ciò, egli iniziò a profilare ulteriori progetti culturali e di cooperazione, come l’insediamento di una sede della Penn State University in Italia. Nei suoi piani comparve inoltre la costituzione di un centro di studi sul Rinascimento presso la stessa Università, che avrebbe voluto composto da docenti italiani e per cui chiamò a partecipare anche componenti di Marcatrè, quali Maurizio Calvesi e Paolo Portoghesi, che però finirono col declinare l’invito poiché alle prese con attività istituzionali e universitarie in patria.
Nel dicembre del 1965 venne compiuta un’altra attività di risonanza internazionale, ovvero la stipula dell’atto ufficiale di donazione della collezione del Museo di Genova a Torino. Esso fu stillato a New York alla presenza, oltre che di Battisti, del Console generale Italiano Vittorio Cordero di Montezemolo, del direttore della Galleria Civica Vittorio Viale, del direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York Giuseppe Cardillo, del direttore del Jewish Museum Sam Hunter, del presidente del MoMA Rene d’Harnoncourt e infine della gallerista Denise Renè. Ciò, oltra a dare lustro alla figura di Battisti, gli permise di consolidare il rapporto di collaborazione con Vittorio Viale e istaurarne un nuovo con Giuseppe Cardillo, con il quale comincerà un’intensa attività di programmazione culturale, volta a espandere il magistero dell’arte italiana in America, così come con i principali musei americani, tra cui appunto il Jewish Museum, che si era fatto carico del trionfo della Pop Art alla Biennale del 1964. Nel dicembre del 1965, proprio a Vittorio Viale comunicò di essere stato incaricato dall’Istituto Italiano di Cultura di New York di fare da tramite con il Museo di Torino per l’organizzazione di una mostra di disegni di giovani artisti italiani, da inviare successivamente a venti musei americani, descrivendosi al direttore come un “amico permanente” incaricato di fare da tramite in America all’arte italiana.
Il senso di soddisfazione che Battisti derivò dal trovarsi in un ambiente stimolante e ricco di possibilità, di cui condivideva gli ideali che rispecchiavano in toto la fiducia ricostruttiva data all’America del post Piano Marshall, fece sì che già dopo pochi mesi egli dichiarasse di sentirsi: “talmente americano che nel mio cuore New York ha sostituito Roma.”.
Secondo le sue intenzioni, la capitale della cultura italiana non era più, e non doveva più essere, Roma o Milano, ma New York, epicentro operativo propizio in cui infiltrarsi per riportare l’attenzione internazionale sugli artisti italiani. Egli iniziò così a fagocitare tutto ciò che faceva parte della cultura americana. Dal 1966 s’interessò regolarmente perfino dello studio sulla pubblicità di giornali e riviste, di carattere culturale e politico, con l’intenzione di pubblicarne un volume.
Nel medesimo periodo si aprì la possibilità di realizzare un’altra mostra di artisti italiani presso il Jewish Museum, con l’intenzione di definire le tendenze moderne nell’arte italiana. Il progetto era molto ambizioso, Battisti, avvalendosi della collaborazione di Celant e Viale, pensava di raccogliere attorno a sé diversi critici, la maggior parte dei quali impegnati in Marcatrè, che ne delineassero il piano formale e concettuale: per esempio per l’Op Art Giulio Carlo Argan, Umbro Apollonio e Sergio Bettini, per la Pop Art Maurizio Calvesi, Alberto Boatto e Maurizio Fagiolo dell’Arco, per la nuova figurazione Enrico Crispolti e Franco Russoli. Nella mostra sarebbero stati presentati inoltre artisti italiani di generazioni precedenti, come Lucio Fontana, che costituivano in un certo senso modelli iniziatici precedenti, da porre come paradigmatici di una artisticità specificatamente italiana. Il Jewish Museum si sarebbe dovuto occupare delle spese di allestimento mentre L’Istituto Italiano di Cultura di New York del catalogo e dei trasporti. Una serie di problemi finanziari fecero però alluvionare il progetto, che fu successivamente realizzato nel 1968 col titolo Young Italians e con la medesima impostazione data da Battisti, ma preso in carico dalla curatela di Alan Solomon. Tutta questa serie di esperienze vicino ad alcuni dei più importanti musei americani aveva però fornito Battisti di una buonissima conoscenza del sistema artistico e museale americano, rinforzando in lui l’idea di porsi come ponte tra l’America e l’Europa. 
Egli percepiva a tutti gli effetti come un dovere morale l’adempiere all’integrazione tra le due culture, nei suoi progetti avrebbe voluto che il Museo di Torino divenisse una sorta di “Museo Whitney d’oltremare”, modello a cui guardava con attenzione e interesse, sollecitando scambi di opere e auspicando per l’Italia un’attività pari a quella che veniva effettuata oltreoceano. 
Tramite l’appoggio con il Museo di Torino e l’Istituto Italiano di cultura di New York, progettò dunque un fitto corpus di proposte per mostre, da cominciare con la già citata mostra sul disegno, seguita da una mostra di architettura italiana dagli anni Sessanta, una mostra su Borromini da realizzare in collaborazione con Paolo Portoghesi e infine una serie di occasioni espositive finalizzate a fornire un bilancio su Italian Op – Art, Italian Pop-Art e infine Italian Industrial Design and Graphics.  Da qui la necessità di inserirsi a livello dovuto negli ambienti della critica di New York, per veicolare a sua volta più agevolmente i prodotti da lui concepiti, così come quelli dei collaboratori a lui vicini. Sul modello di Marcatrè, Battisti coinvolse attorno alla metà del 1966 i suoi studenti nella realizzazione di una rivista universitaria che raccogliesse loro interventi e, mentre maturava le sue considerazioni positive rispetto all’attitudine verso la cultura contemporanea che contraddistingueva la didattica americana, si fece carico di avanzare ufficialmente al governo italiano una proposta per l’istituzione di un campus permanente a Roma della Penn State University, tramite la collaborazione con Bruno Zevi. 
Battisti era ormai divenuto un interlocutore privilegiato per molti italiani che avevano intenzione di proporre progetti artistici in America o tentare lì una carriera, così come una figura di rilievo anche per i fatti dell’arte contemporanea e dell’avanguardia, ricevendo l’invito a partecipare nel dicembre 1967, assieme a Edoardo Sanguineti, al convegno tenuto dalla Modern Language Association di Chicago con una lecture sulle avanguardie italiane dopo il 1945.
Nonostante la circostanza professionale apparentemente proficua, dalla seconda metà del 1967 egli iniziò però a maturare un certo ripensamento rispetto alle condizioni politiche e di vita negli Stati Uniti. Fu in particolare la vicenda relativa al conflitto del Vietnam, scoppiato attorno al 1955 ma intensificatosi notevolmente proprio nella metà degli anni Sessanta, a rendere la situazione per un antimilitarista come Battisti sempre più intollerabile. In questa estrema situazione politica maturò perciò l’idea di lasciare la direzione di Marcatrè e l’incarico d’insegnamento alla Penn State University. Completata una breve docenza presso la North Carolina University, tornò dunque definitivamente in Italia nel 1970. Il ritorno non significò però il crollo del ponte con gli Stati Uniti, in quanto egli continuò a dedicarsi allo studio dell’arte e dell’architettura americana, così come all’organizzazione di mostre e altre iniziative o alla partecipazione a convegni in territorio americano, lungo tutto il corso della sua vita.

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Scheda redatta da: Giandomenico Chiaraluce