Cornell University

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Sartogo Piero. Prolegomena to the Higher Educational Environment. Cornell University Press: Ithaca (1968), 19.

1968

Ithaca, NY, USA

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Nel 1968 l’architetto Piero Sartogo è invitato a Cornell University, NY, per tenere un seminario sull’ambiente educativo e le sue configurazioni. Ad eccezione della breve parentesi di Romaldo Giurgola, a Cornell come instructor in architettura fra il 1952 e il 1954, la piccola ma prestigiosa università dell’upstate New York non aveva mai intrattenuto scambi con di rilievo con la cultura architettonica italiana. Sartogo, romano, era già stato visiting negli Stati Uniti – alla University of Virginia, l’anno precedente –, e dal 1967 era parte della redazione di Casabella diretta da Alessandro Mendini. Nel 1968 Sartogo aveva 34 anni; dalla sua poteva vantare una certa familiarità con l’ambiente architettonico d’oltreoceano, avendo lavorato per almeno due anni nell’ufficio romano di The Architects Collaborative. In quegli anni, il gruppo di progettazione fondato e diretto da Walter Gropius era impegnato negli approfondimenti esecutivi del masterplan per l’Università di Baghdad, incarico ottenuto nel 1957 per volere dell’ultimo re dell’Iraq, Faisal II. E aveva deciso di stabilire a Roma una testa di ponte per espandere la propria attività nei paesi del Medio oriente e del Nord Africa, dove i processi di modernizzazione sembravano offrire inedite prospettive di sviluppo professionale. Roma era uno scalo aereo consueto, e ugualmente riconosciuta era la preparazione dei giovani architetti italiani. È nell’ambiente multidisciplinare e transnazionale di TAC, quindi, che Sartogo entra stabilmente in contatto con quei temi che lo accompagneranno per buona parte del decennio, e che giungeranno a definitiva maturazione proprio durante il semestre a Cornell. I progetti per le nuove istituzioni universitarie di Baghdad e Tunisi, sperimentati in studio, rappresentano l’avvio di una riflessione intorno a un modello insediativo le cui implicazioni disciplinari avrebbero trovato ampio eco sulle pagine di Casabella, con cinque articoli firmati dallo stesso Sartogo insieme a Carlo Pelliccia proprio fra il 1968 e il 1969. In Italia, del resto, il tema è all’ordine del giorno, e quella di Sartogo si rivelerà un’istanza condivisa: risale agli stessi anni infatti l’impostazione dei concorsi per le nuove università di Cagliari e della Calabria, di cui risulteranno rispettivamente vincitori i gruppi guidati da Luisa Anversa e Vittorio Gregotti. Nei cinque saggi comparsi su Casabella, la riflessione ha inizio e gravita intorno alla nozione fondativa di campus: lo stato dell’arte nella progettazione di strutture simili, l’evoluzione del dibattito negli Stati Uniti – lì dove il modello si era materializzato e consolidato – la possibilità di adattare i caratteri del campus al caso italiano in ragione di un auspicato sviluppo territoriale. Durante il semestre a Cornell il focus sul campus sarebbe rimasto immutato, almeno nelle premesse. Ad ampliarsi, invece, saranno l’orizzonte e la finalità dello studio, come espresso dal direttore del dipartimento di Architettura Oswald M. Ungers nelle brevi note introduttive alla discussione finale. Un ampliamento anche in senso terminologico, se è vero che l’oggetto della riflessione non è più solo circoscritto alla sede dell’istituzione educativa ma si estende all’ambiente inteso nel suo senso più ampio, ovvero al sistema di relazioni che il campus intrattiene con l’intorno, a diverse scale. La ragione di questo scarto, secondo Ungers, è da ricercarsi nel sempre minore coinvolgimento della società civile nei temi della ricerca. Una condizione di cesura alimentata proprio dal secolare isolamento fisico delle sedi rispetto a uno “sporco quotidiano”, un mondo reale cui l’istituzione ha sempre voltato le spalle.  A questa condizione, continua Ungers, è necessario rispondere con rinnovate forme di integrazione affinché il sapere prodotto all’interno delle istituzioni educative non diventi appannaggio esclusivo e strumentale dei poteri legati alla comunicazione e alla produzione di massa. Sulla base di queste riflessioni Sartogo organizza il corso guardando ai diversi modi insediativi possibili, identificati ogni volta in ragione del tipo di configurazione (aggregata, disaggregata o articolata) e delle relazioni stabilite con il contesto ambientale e scalare (isolato, urbano, regionale). I cinque modi risultanti – aggregato isolato e in contesto urbano; disaggregato isolato e in contesto urbano; articolato su scala regionale – sono quindi analizzati ciascuno su due versanti: un primo versante “interno”, rivolto alle caratteristiche intrinseche del principio insediativo, quest’ultimo indagato attraverso un modello, un caso specifico particolarmente rappresentativo; un secondo, invece, “esterno”, che guarda a parallelismi, affinità e analogie fra il modello prescelto e altri progetti, non necessariamente legati all’istituzione universitaria ma rilevanti nel modo in cui interpretano e declinano il singolo principio, specialmente in termini di forma e spazio. In questo secondo spazio di indagine, il palinsesto di riferimenti si estende al di là di ogni ragionevole attesa.  Ai progetti simbolo delle ultime generazioni moderne – quelli di Kurokawa, Candilis, Le Corbusier, Archigram, Price e Friedman – Sartogo associa infatti i rilievi di Tell el-Amarna e dei mercati di Traiano, le piante degli Uffizi e della manica lunga del Quirinale, il piano ippodameo di Mileto, secondo quel libero sincretismo di immagini e figure che avrebbe contraddistinto gli anni a venire di Cornell e che avrebbe trovato il suo culmine nell’approccio bricolage di Rowe e del suo gruppo. Presente alla discussione finale in qualità di membro del jury, Rowe non mostrerà particolare entusiasmo nei confronti delle velleità adattivo-trasformative degli studenti di Sartogo, ponendo continui quesiti e interrogativi sulla natura e la qualità degli spazi proposti nei quattro prototipi di progetto. Al di là dei giudizi espressi da Rowe, nella metodologia impostata da Sartogo sembrava avverarsi la medesima ambizione che iniziava a contraddistinguere i lavori del Cornell Graduate Studio of Urban Design che lo stesso Rowe dirigeva dal 1963. L’architetto romano, infatti, guardava all’ambiente educativo come a un fatto eminentemente urbano dove le complessità avrebbero dovuto tendere all’integrazione più che alla separazione, come era negli spazi della città pre-moderna. In questo quadro, il compito dell’architetto era dunque quello di interrogarsi sul modo in cui procedere, se intendere cioè la stabilità e l’integrità della forma urbana come un incontrovertibile postulato di base o come il risultato finale di un processo.  Qualunque fosse stata la risposta fornita a questo interrogativo, tuttavia, l’esito avrebbe dovuto riflettere quella varietà del reale che ogni città compendiava, in tutte le sue multiformi manifestazioni. Ed è proprio in ragione di questo aspetto che si iniziano a porre sullo stesso piano città moderna e città tradizionale quali espressioni complementari di un unico, grande artefatto. Lo avrebbe fatto Sartogo, estendendo il panorama dei riferimenti urbani a quelli che fino ad allora erano considerati pezzi di architettura – gli Uffizi, la manica lunga del Quirinale, l’abbazia di Mont Saint MIchel; lo avrebbe fatto Rowe con i colleghi Jerry Wells e Werner Seligmann negli esercizi di “deformazione” per Buffalo e Manhattan, quest’ultimo preparato per il MoMA ed esposto all’interno della mostra “The New City: Architecture and Urban Renewal” insieme a altre tre proposte elaborate da altrettante università della costa orientale: MIT, Columbia e Princeton. In un curioso ma certamente non casuale corto-circuito di persone e manufatti, nella mostra del MoMA si erano intrecciate figure e architetture vicine alle riflessioni di Sartogo: da un lato il progetto per l’università di Scarborough – uno dei cinque modelli chiave identificati dall’architetto italiano – esposto al MoMA come dimostrazione di pianificazione coordinata di tipo urbano, seppur su scala ridotta; dall’altro Peter Eisenman, allora docente a Princeton ed estensore con Michael Graves di uno dei quattro progetti per Manhattan commissionati per la mostra newyorchese. Sarà proprio Eisenman, infatti, l’alter-ego statunitense di Sartogo nella costruzione del numero monografico di Casabella intitolato “The City as an Artifact”, vero manifesto del nuovo Institute for Architecture and Urban Studies (IAUS), da poco fondato dallo stesso Eisenman con la partecipazione di Colin Rowe. Fra le pagine della rivista italiana, e in particolar modo negli scritti di Frampton e Schumacher, troverà spazio lo stesso sincretismo presentato da Sartogo a Cornell: alle immagini dei piani di Woods si alternano infatti stralci della pianta di Nolli, quest’ultima evocata come rivelatore di quel patrimonio comune che è lo spazio vuoto, sia esso quello della strada o quello degli edifici pubblici scavati nel pieno dell’edificato. In opposizione alle interpretazioni avanzate da Robert Venturi e Denise Scott-Brown e contro l’appiattimento prodotto da un visibilismo dai tratti ora populisti ora estetizzanti, la città è invocata come fatto fisico testimone di complessità sociali e politiche riassumibili nei suoi attributi formali: un atteggiamento che condurrà alla necessaria quanto urgente rivalutazione della città tradizionale, e che troverà nelle parole di Schumacher – laureato a Cornell nel 1967 – l’espressione più cristallina, almeno fino alla pubblicazione di Collage City e all’ideazione della mostra “Roma Interrotta”, onirica rielaborazione della pianta del Nolli cui contribuiranno fra gli altri sia Rowe sia lo stesso Sartogo, che della mostra era stato promotore e progettista.     

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Sources

Rispoli, Ernesto Ramon. 2012. Ponti sull’Atlantico. L’Institute for Architecture and Urban Studies e le relazioni Italia-America (1967-1985). Macerata: Quodlibet.
Sartogo, Piero. 1968. Prolegomena to the Higher Educational Environment. Ithaca: Cornell University Press.
1971. «The City as an Artifact.» Casabella (359-360).

Author Filippo De Dominicis